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La lunga discesa: declino e futuro deindustriale Stampa E-mail

La lunga discesa: declino e futuro deindustriale
John Michael Greer
6 Dicembre 2004


Da più di tre decenni ormai il mondo è stato avvisato del fatto che il lungo pomeriggio della società industriale si avvia al termine. L'epocale rapporto del Club di Roma, I limiti dello sviluppo (1973), che fu il primo di molti studi assai convincenti, mise in guardia sul fatto che una crescita economica incontrollata sarebbe entrata in conflitto con i limiti fisici del pianeta in qualche momento durante la prima parte del ventunesimo secolo, se non si fossero adottati dei provvedimenti costosi e politicamente impopolari. Ovviamente, questi provvedimenti non vennero adottati per nulla. La mancanza di visione strategica e di volontà politica da parte sia dei leader che degli elettori fece buttar via i decenni che avrebbero potuto fare la differenza. Oggi viviamo all'ombra di quel fallimento.
Tuttavia una strana cecità sembra influenzare i tentativi di comprendere la nostra situazione attuale. Le persone che intervengono sui due lati del dibattito parlano come se il futuro avesse solo due possibili forme: progresso o apocalisse, il mantenimento dello status quo oppure un catastrofico scivolamento verso una condizione selvaggia caratterizzata da morte su larga scala. Che l'argomento sia il riscaldamento globale, l'energia rinnovabile, l'esaurimento dei combustibili fossili o qualunque altra cosa, le stesse asserzioni vengono ripetute come un disco rotto. Una parte insiste che la tecnologia risolverà inevitabilmente i nostri problemi e porterà una vita migliore per tutti, mentre la parte opposta brandisce gli scenari peggiori, e parla di milioni di cadaveri. Dovrebbe essere ovvio che queste non sono le uniche possibilità. Il fatto che questo non sia affatto ovvio merita di essere discusso.
La maggior parte delle persone resterebbe stupita se due meteorologi, discutendo del tempo del giorno seguente in una piovosa giornata autunnale, ignorassero tutte le possibilità eccetto tempo sereno o una improvvisa tempesta di neve. Eppure lo stesso tipo di illogicità non viene contestata nei dibattiti sul nostro futuro. Dunque è cruciale mettere da parte i nostri preconcetti e guardare a ciò che accade in pratica quando le civiltà si scontrano con i limiti posti dalla loro disponibilità di risorse. Questo è accaduto molte volte nel passato, eppure i salti tecnologici e i collassi improvvisi sono rari. È molto più comune un processo a cui oggiggiorno nessuno pensa: il declino.

Paralleli storici
Oggi non è molto di moda sostenere che abbiamo qualcosa da imparare dal passato. Probabilmente questo accade perché la storia rispecchia in maniera fedele le nostre follie. Coloro che ricordano la bolla azionaria del 1929, per esempio, sono in grado di vedere la ripetizione di ogni dettaglio nella frenesia relativa ai titoli tecnologici della fine degli anni '90. Le stesse affermazioni che una "new economy" e una nuova tecnologia avevano reso obsoleti i cicli economici, la stessa proliferazione di veicoli di investimento (le società finanziarie allora, i fondi comuni di investimento oggi), la stessa illusoria fiducia che i valori delle azioni sarebbero cresciuti per sempre e che i fondamentali non avessero importanza: un avanzamento veloce di settant'anni, ed ecco le follie del 1929 ripetute nel 1999, sotto gli incitamenti degli economisti, ovvero di coloro che avrebbero dovuto saperla più lunga degli altri.
L'ascesa e la caduta delle civiltà offre lo stesso motivo di imbarazzo su scala più ampia. Sappiamo senza ombra di dubbio cosa accade alle società che oltrepassano la propria base di risorse: affondano. Il libro di Clive Poynting A Green History of the World (1992) documenta dozzine di culture del passato che finirono nel bacino di demolizione della storia proprio per questa ragione. Un esempio molto rilevante è quello dell'antico impero Maya, che fiorì nella penisola dello Yucatan in America Centrale mentre l'Europa si dibatteva nel Medio Evo.
Come la moderna società industriale, i Maya costruirono la loro civiltà su una base di risorse non rinnovabili. Nel loro caso si trattava della fertilità dei fragili suoli tropicali, che non erano in grado di sopportare indefinitamente la coltivazione intensiva del mais. Su queste fragili fondamenta essi costruirono una civiltà straordinaria, con belle arti, architettura, astronomia, matematica, e un calendario più accurato di quello che adoperiamo oggi. Niente di tutto ciò ebbe importanza quando i raccolti iniziarono a diminuire. La civiltà Maya si disintegrò, le città furono abbandonate a favore della giungla, e la popolazione del territorio dei Maya diminuì del 90%.
Il parallelo è molto calzante, perché i Maya avevano altre opzioni. Avrebbero potuto passare dal mais a coltivazioni più sostenibili, come le noci ramon, o avrebbero potuto apprendere metodi per la coltivazione intensiva delle zone umide dai loro vicini del nord. Niente di ciò si verificò, perché la coltivazione del mais era centrale nell'ideologia politica dei Maya. Il potere degli ahaoub, o "signori divini", che governavano le città Maya, dipendeva dal controllo delle coltivazioni di mais, per cui cambiare colture o metodi di coltivazione era impensabile. Invece, le elite Maya risposero alla crisi promuovendo guerre per sottrarre campi e mais ad altre città-stato, rendendo il loro declino e la loro caduta molto più brutali di quanto avrebbero potuto essere.
Anche così, il declino dei Maya non fu un processo rapido. Le città dei Maya non furono abbandonate da un giorno all'altro, come pensarono erroneamente gli archeologi di due generazioni fa, ma soccombettero con un "collasso oscillante" che si protrasse per un secolo e mezzo, dal 750 al 900. Nelle regioni periferiche il processo fu anche più lento. Chichen Itza, nell'estremo nord, fu per lungo tempo fiorente anche dopo che città come Tikal e Bonampak furono ridotte in rovina, e piccole città-stato Maya sopravvisseto qua e là nello Yucatan fino alla conquista spagnola.
La scala temporale del processo può essere meglio compresa confrontando il collasso dei Maya alla durata della vita umana. Una donna Maya nata intorno al 730 avrebbe visto l'inizio della crisi, ma gli ahauob e le loro città sarebbero stati ancora fiorenti alla sua morte, settanta anni dopo. Il suo pronipote, nato intorno all'800, sarebbe cresciuto in seno ad una società in via di disintegrazione, e le guerre e le perdite di raccolti dei suoi tempi gli sarebbero parsi cose di ordinaria amministrazione. La sua pronipote, nata intorno all'870, non avrebbe conosciuto altro che rovine lentamente sprofondanti nella giungla. Quando lei e la sua famiglia infine partirono verso un lontano villaggio, ultimi a lasciare la loro città ormai vuota, non le sarebbe certo passato per la testa che i suoi passi silenziosi su un sentiero polveroso segnavano la fine di una civiltà.

La teoria di Olduvai
Il medesimo schema si ripete più e più volte nella storia. La civiltà finisce attraverso una disintegrazione graduale, e non un improvviso e catastrofico collasso. Solitamente occorrono tra 150 e 350 anni perché una civiltà declini e muoia. Questo getta una luce allarmante sulla crisi odierna. Agli Stati Uniti sono occorsi due secoli di cambiamenti graduali per passare dall'essere una civiltà agricola alla sua attuale condizione di senescente colosso industriale. Adesso, giunti al limite della propria disponibilità di risorse, si confrontano con il destino comune di tutte le civiltà. E tuttavia, se questo destino seguirà la sua usuale tempistica, potrebbero occorrere due secoli di cambiamenti graduali per trasformare nuovamente gli Stati Uniti in una società agricola.
Per quanto possa apparire sorprendente, ciò è convalidato da solide evidenze. Consideriamo le nostre decrescenti riserve di petrolio. La curva di Hubbert, inventata dal geologo M. King Hubbert negli anni '50, descrive la produzione in funzione del tempo di qualunque risorsa petrolifera, dal singolo pozzo all'intero pianeta. È una curva a campana: il petrolio arriva lentamente all'inizio, poi la produzione cresce fino a un picco, e poi decresce gradualmente fino a zero. Il picco si verifica quando circa la metà del petrolio è stata consumata. Gli Stati Uniti (esclusi Hawaii e Alaska) hanno raggiunto il picco nel 1970, e la produzione è crollata successivamente. Molti ricercatori nel settore energetico situano il picco mondiale prima del 2010. Dopo il picco, secondo la curva di Hubbert, la produzione mondiale di petrolio decrescerà circa allo stesso ritmo con cui è cresciuta. Con un picco prima del 2010, la produzione nel 2030 sarà più o meno uguale a quella che si aveva nel 1975 o nel 1980, cioè circa 20 miliardi di barili all'anno. Il petrolio prodotto nel 2030 dovrà soddisfare i bisogni di una popolazione mondiale doppia, in un mondo in crisi, ma 20 miliardi di barili sono comunque molti.
Citando impropriamente T. S. Eliot, questo è il modo in cui il petrolio finisce, non con un botto ma con un gocciolio. Gli altri combustibili fossili hanno lo stesso destino, così come l'uranio utilizzato per la produzione di energia nucleare, ma potranno comunque attutire l'impatto del declino della produzione petrolifera prima di raggiungere i rispettivi picchi di Hubbert. Le fonti rinnovabili di energia sono in grado di fornire solo una piccola frazione dell'energia che oggi estraiamo dai combustibili fossili, ma questa frazione potrà anch'essa attenuare gli effetti del declino e prolungare la durata delle decrescenti riserve di petrolio e carbone. Il problema che abbiamo davanti non è quello di non avere più energia, ma quello di averne ogni anno sempre meno, fino a quando non si cadrà a livelli che potranno essere sostenuti indefinitamente.
La logica della curva di Hubbert fornisce la cornice per la teoria di Olduvai formulata da Richard Duncan, uno sguardo senza compromessi ad un futuro deindustrializzato. Duncan parte dalla legge di White, una regola generalmente accettata secondo cui una cultura evolve fintantoché il consumo di energia pro capite cresce. Globalmente, il consumo di energia pro capite rimase a livelli modesti fino al 1800, quando l'uso dei combustibili fossili lo mandò alle stelle fino al picco di tutti i tempi, nel 1979. A quel punto, sostiene Duncan, due secoli di progresso esplosivo inziarono a disfarsi.
A partire dal 1979 il consumo mondiale pro capite di energia ha iniziato a declinare, poiché l'aumento della popolazione ha superato la modesta crescita della produzione di energia. Quando la produzione di energia inizierà a decrescere successivamente al picco di Hubbert, il declino accelererà. Seguendo la curva, nel 2030 il consumo mondiale pro capite di energia sarà quello che era nel 1930, circa un terzo del valore del 1979. Duncan sostiene che l'era industriale è un'onda impulsata, una singola irripetibile curva a campana centrata sul 1979. Poiché nessuna fonte rinnovabile di energia può fornire altro che una piccola frazione delle immense quantità di energia fossile che abbiamo sperperato nel passato recente, egli predice che i millenni di culture a bassa tecnologia prima dell'impulso industriale, quando ancora nessuno conosceva il fantastico tesoro di energia racchiuso nei combustibili fossili, saranno bilanciati da millenni di culture a bassa tecnologia dopo l'impulso industriale, quando il tesoro sarà perduto per sempre.

Potenza del mito
Molte persone trovano questo tipo di previsioni estremamente irritanti. Coloro che credono nel progresso insistono che l'ingegno umano sarà in grado di mettere in moto il progresso ancora una volta e ci porterà ad una società più avanzata di quella odierna. Coloro che credono nell'apocalisse insistono sul fatto che il declino incrementale porterà in qualche modo alla catastrofe e ci condurrà a decessi di massa e a un futuro da Guerriero della Strada. L'idea di una lenta discesa verso le civiltà agricole del futuro deindustriale li offende entrambi. La mia esperienza è che molti credenti nell'una o nell'altra opzione semplicemente non riescono a concepire una terza alternativa.
Una cecità di questo tipo è il segnale della presenza nascosta del mito. Oggi molti credono che solo i popoli primitivi credano nei miti, ma in realtà i miti dominano il pensiero di ogni società, inclusa la nostra. Un mito è una storia che dà un senso al mondo. La maggior parte delle culture arcaiche prendevano i propri miti dalla religione; la maggior parte delle società moderne prendono i propri dalla scienza o dalle ideologie politiche. Due visioni, in competizione tra loro, forniscono alla società moderna i suoi miti più popolari. Entrambe sono ben note a tutti voi.
La prima è il mito del progresso. Secondo questa visione, l'intera storia dell'uomo è una storia di progresso. Da uno stato selvaggio e primitivo di ignoranza, secondo il mito del progresso, l'uomo ha salito, uno scalino dopo l'altro, la scala della civilizzazione. La conoscenza acquisita dalle successive generazioni ha consentito ad ogni cultura di spingersi più avanti di quelle precedenti. Con la modernità, il progresso ha subito una rapida accelerazione, che continua ancora oggi. Lo scopo dell'esistenza umana è di rendere possibile questa continua ascesa, in modo che i nostri discendenti possano un giorno raggiungere le stelle.
La seconda è il mito della separazione. Secondo questa visione, l'intera storia umana è un tragico vicolo cieco. Un tempo gli uomini vivevano in armonia col proprio mondo, con gli altri e con se stessi, ma quel tempo è finito e da allora le cose non hanno fatto che peggiorare. Enormi città governate da burocrazie ipertrofiche, abitate da persone che hanno abbandonato i valori spirituali in favore di un'esistenza puramente materialistica, segnano il punto di non ritorno. In qualche momento del prossimo futuro l'intera traballante struttura crollerà, schiacciata da un'improvvisa crisi, e innumerevoli persone moriranno. Solo coloro che abbandonano una società corrotta, il cui destino è segnato, sopravviveranno e ricostruiranno un mondo migliore.
Entrambe le visioni sono versioni dell'antichissimo mito dell'apocalisse, che prevede vasti disastri seguiti da un millennio di felicità per gli eletti. Il sociologo Philip Lamy ha mostrato nel suo libro Millennial Rage che la maggior parte delle persone, inclusi moltissimi cristiani, credono oggi in versioni "frammentate" del mito dell'apocalisse che sono focalizzate su un solo tema estratto dalla complessità del mito più antico. I miti del progresso e della separazione sono dei buoni esempi: il primo mette l'enfasi sulla speranza di un futuro di felicità, il secondo sul timore di una catastrofe.
La natura mitica di questi punti di vista emerge chiaramente quando li si vada a confrontare con gli eventi storici. Coloro che credono nel progresso sostengono che la storia dell'uomo è stata sempre progressiva, ma un semplice sguardo al passato è sufficiente per mettere in crisi questa rassicurante fede. Nel periodo compreso tra la rivoluzione agricola e l'età industriale la vita dell'uomo è cambiata poco; tutto considerato, la vita di un contadino nell'Egitto dei faraoni non era molto diversa da quella di un contadino nella Francia del diciassettesimo secolo (incluso il fatto che entrambi avevano un Re Sole). L'industrializzazione ha prodotto un cambiamento semplicemente attingendo all'energia immagazzinata nelle viscere della terra e dando così il via a due secoli di crescita esuberante.
Tutto ciò che occorre a una società industriale, eccetto la maniera di convertire l'energia fossile in energia meccanica, esisteva molto prima della rivoluzione industriale. Le fonti rinnovabili di energia? L'energia eolica, l'energia idraulica e le biomasse erano tutte adoperate in maniera diffusa nel passato preindustriale. La conoscenza scientifica? Le leggi della meccanica furono ricavate in tempi antichi, e gli scienziati greci arrivarono persino ad inventare la turbina a vapore prima della nascita di Cristo. Ma senza combustibili fossili si trattava di una curiosità senza valore pratico. L'ingegnosità umana? Gli uomini delle ere passate erano altrettanto ingegnosi e pieni di risorse quanto lo siamo noi. I combustibili fossili sono ciò che fa l'unica, cruciale differenza tra le culture antiche e la moderna società industriale. Man mano che i combustibili fossili si esauriranno e le conseguenze ecologiche del loro abuso ricadranno sui responsabili, questa differenza sparirà. Per quanto concerne coloro che semplicemente insistono che "non possiamo tornare indietro", è facile a dirsi, ma il fatto è che non abbiamo più le risorse per andare avanti, e presto non saremo neanche in grado di restare al punto in cui ci troviamo. Qual è l'altra direzione possibile?
Coloro che credono nell'apocalisse, da parte loro, insistono sul fatto che la fine della nostra civiltà sarà improvvisa, catastrofica, e totale. Come mostrato più sopra, la storia non fornisce evidenze per questa affermazione. Il collasso di una civiltà richiede tempo, la disponibilità di risorse della società industriale si sta riducendo ma è lontana dall'essere esaurita, l'impatto del riscaldamento globale e di altri sconvolgimenti ecologici cresce lentamente nel tempo, e sia le elite al potere che i comuni cittadini hanno tutto l'interesse per mantenere l'ordinario andamento delle cose più a lungo possibile. La storia dell'ultimo secolo mostra che le società industriali possono sopportare terribili sconvolgimenti senza per questo dissolversi in una guerra Hobbesiana di tutti contro tutti, e nei momenti difficili le persone sono molto più propense a seguire gli ordini e sperare per il meglio che a unirsi alle folle inferocite che rivestono un ruolo importante nelle fantasie catastrofiste. La triste storia della non-crisi del millennium bug di qualche anno fa può essere utile per rammentare che i rischi di catastrofe possono essere facilmente sopravvalutati.
Ovviamente è possibile che una qualche ultra-catastrofe sia dietro l'angolo per sterminarci, così come è possibile che gli scienziati tirino fuori dal cappello un coniglio tecnologico e diano alla società industriale nuove prospettiva di vita. È anche possibile che alieni provenienti dallo spazio sfreccino nella nostra atmosfera a bordo di tazze da tè volanti martedì prossimo, lasciando cadere verdure radioattive su tutti coloro che si chiamano Fred. Il fatto che quest'ultima posibilità non possa essere esclusa non rende per questo ragionevole pianificare il nostro futuro basandosi sulla possibilità di far funzionare le fabbriche usando come fonte di energia cavoli che risplendono al buio!
È ragionevole considerare la catastrofe e il progresso continuo come possibilità, ma entrambe devono essere pesate contro la realtà della nostra attuale situazione e contro l'evidenza storica. Entrambe richiedono un deus ex machina che modifichi il corso degli eventi su una scala gigantesca: le catastrofi ordinarie non sono sufficienti per far collassare la società industriale da un giorno all'altro, così come il normale progresso tecnologico non è sufficiente per tirare la società industriale fuori dal pasticcio in cui si è cacciata da sola. Senza un evento straordinario, la nostra civiltà è diretta in giù, lungo il sentiero ben tracciato del declino. Ammesso che abbia un senso pensare di fare piani per il futuro, la cosa più ragionevole è farli per quello più probabile.
Sia il mito del progresso che quello della separazione hanno un potente richiamo emotivo; questo è il motivo per cui sono così popolari. Il mito del progresso perpetuo è di conforto per coloro che accettano la società quale è, e che desiderano credere che le loro vite siano parte di un processo che porterà in futuro a una situazione migliore. Il mito. Il mito dell'imminente apocalisse è di conforto per coloro che non accettano la società quale è, e vogliono credere in una catastrofe che faccia crollare le torri presuntuose di una civiltà che aborriscono. E tuttavia, il fatto che una credenza sia potente a livello emotivo e porti conforto non la rende per questo vera.

La rotta del declino
Guardare oltre la mitologia verso la dura realtà del futuro fornisce una chiara sensazione della nostra condizione. Più di sei miliardi di persone vivono su pianetà che può sostenerne per un tempo indefinito non più di un miliardo. Già oggi non possiamo soddisfare i bisogni di tutti, e le risorse necessarie per mantenere gli standard di vita odierni si stanno esaurendo. Le guerre per le risorse sono già iniziate - l'invasione dell'Iraq da parte degli Stati Uniti avvenuta nel 2003 potrebbe essere ricordata un giorno come la prima delle Guerre per il Petrolio. Nel frattempo il riscaldamento globale aumenta i costi dei disastri naturali così rapidamente che una delle maggiori compagnie di riassicurazione, la Swiss RE, avverte che ciò di per sé porterà l'economia mondiale alla bancarotta prima del 2060.
Lasciando da parte il deus ex machina delle mitologie del progresso e dell'apocalisse, riportiamo i risultati sulla scala temporale della vita umana, ed ecco che emerge un probabile futuro. Immaginiamo una donna statunitense nata nel 1960. Ella vede le code per la benzina negli anni '70, i trucchi politici di corto respiro che mascherarono la crisi negli anni '80 e '90, e i rinnovati problemi dei decenni seguenti. Prezzi dell'energia in rapida crescita, penuria, depressioni economiche e guerre per le risorse danno forma al resto della sua vita. A 70 anni, ella vive in una città assediata e malfunzionante in cui metà della popolazione non ha accesso in maniera affidabile ad acqua potabile, elettricità e cure mediche. Baraccopoli cresciute all'ombra dei grattacieli, mentre i leader economici e politici continuano ad insistere sul fatto che le cose stanno migliorando.
Il suo pronipote, nato nel 2030, riesce a sopravvivere al cocktail di malattie, violenza diffusa e abuso epidemico di alcol e droga che si porta via metà della sua generazione prima dell'età di trent'anni. Un colpo di fortuna lo porta ad intraprendere una carriera tecnica, al riparo dal servizio militare in guerre infinite all'estero o "missioni di pace" contro gruppi separatisti in patria. La sua conoscenza tecnica consiste per lo più in regole empiriche per riciclare materiali dai rifiuti in maniera efficiente, le auto e i frigoriferi sono beni di lusso che non possiederà mai, la sua casa non ha elettricità e riscaldamento centralizzato, e la sua assistenza sanitaria proviene da una vecchia la cui nonna era un medico, e che sa qualcosa sulla cura delle ferite e sulle erbe. All'epoca in cui i suoi capelli ingrigiscono le regioni in perenne conflitto che costituivano un tempo gli Stati Uniti si sono divise, tutti i carburanti e la potenza elettrica residui sono stati requisiti dai nuovi governi, e le città costiere sono state abbandonate a causa dell'aumento del livello degli oceani.
Per la sua pronipote, nata nel 2100, le grandi crisi sono perlopiù una cosa del passato. Cresce in un anello di villaggi scarsamente popolati che circonda un nucleo abbandonato di grattacieli rugginosi visitati solo da squadre di recupero che ne estraggono materie prime. Guerre locali scoppiano qua e là, gli oceani continuano a salire di livello, e carestie ed epidemie sono una realtà ben nota, ma con una popolazione mondiale che è forse il 15% di quella che era nel 2000, l'uomo e la natura stanno raggiungendo un equilibrio. Impara a leggere e scrivere, una capacità che la maggior parte dei suoi vicini non ha, e alcuni vecchi libri sono tra le sue cose più preziose, ma i giorni in cui l'uomo camminò sulla luna stanno scivolando nella leggenda. Quando lei e la sua famiglia infine si mettono in cammino verso un villaggio della campagna, lasciando il guscio della vecchia città alle squadre di recupero, non le passa per la testa che i suoi passi silenziosi su una strada di asfalto dissestato segna la fine di una civiltà.

Cosa si può fare
Gli uomini cercano di discernere come sarà il futuro per lo stesso motivo per cui chi guida guarda la strada davanti a sé: è più facile affrontare le crisi e sfruttare le opportunità se si ha tempo sufficiente per reagire. Fino ad oggi i due miti che abbiamo discusso hanno dominato la pianificazione per il futuro. Chi crede nel progresso sostiene che il modo migliore di affrontare il futuro è destinare risorse a ricerca e sviluppo, in modo che nuove tecnologie per sostenere il progresso siano pronte per tempo. Coloro che credono nell'apocalisse sostengono che il modo migliore per fronteggiare il futuro è costruire enclave isolate, ben provviste di cibo e armi, in cui coloro che intendono sopravvivere al disastro possano rifugiarsi ed attendere.
Se abbiamo di fronte un'era di declino, tuttavia, nessuno di questi due approcci ha grande valore. Ricerca e sviluppo potrebbero essere utili se focalizzate su tecnologie semplici e sostenibili, ma occorre che progetti di questo tipo siano intrapresi al più presto: man mano che il declino prenderà il sopravvento, i fondi per la ricerca scientifica saranno una delle prime cose ad essere tagliate. Per quanto riguarda il rinchiudersi in un capanno in montagna, il ritmo lento del declino rende questa tattica del tutto irrilevante. Per quante scatolette e munizioni si possano avere, non dureranno un paio di secoli, e neanche voi.
Un futuro diverso richiede un modo di ragionare diverso. I bisogni fondamentali che devono essere soddisfatti in un'epoca di declino sono riduzione del danno, sopravvivenza culturale, e la costruzione di una nuova società in mezzo alle rovine della vecchia. Gli interessi politici ed economici non saranno in grado di soddisfare questi bisogni, o di fare alcunché di utile; il petrolio è per le moderne società industrializzate ciò che il mais era per gli antichi Maya, e gli ahauob di Washington e Wall Street si sono rivolti alla guerra proprio come fecero i loro equivalenti Maya. Per fortuna, tutti e tre i bisogni possono essere soddisfatti da individui e piccoli gruppi con risorse limitate, e progetti di questo tipo sono già in corso su piccola scala.
La riduzione del danno pone l'enfasi su modi per far sì che l'impatto del declino non abbia costi maggiori del necessario. La grande sfida è che la maggior parte delle persone nel mondo sviluppato non hanno la capacità di sopravvivere al di fuori del bozzolo costituito dalla società industriale. Quando la tecnologia inizierà a disfarsi, le infrastrutture collasseranno e disastri locali colpiranno, la gente dovrà provvedere da sola a procurarsi il necessario per sopravvivere, usando materiali disponibili in loco, eppure oggi la maggior parte delle persone non è neanche in grado di accendere un fuoco per scaldarsi senza fiammiferi o un accendino. Per affrontare questa sfida le persone dovranno apprendere tecniche di sopravvivenza, primo soccorso e di autosufficienza. Questo può essere affrontato creando gruppi che vadano a formare reti di sostegno reciproco, elaborando specializzazioni sovrapposte, in modo che le persone possano attingere a un insieme di capacità più ampio.
La tentazione di fare affidamento su riserve di cibo, tecnologia, armi o metalli preziosi per affrontare l'impatto con un'era di declino è naturale, ma fatale. Per due secoli le macchine e i loro prodotti sono stati più economici del lavoro umano specializzato. I risultati sono un'abitudine a dare più valore alle cose che alle capacità e, in definitiva, una "società delle protesi" nella quale ci viene insegnato a trascurare le capacità e a pagare per ottenere sostituti tecnologici: usiamo agende invece di mantenere allenate le nostre memorie, compriamo macchine per fare il pane invece di imparare a prepararlo noi stessi, guardiamo la televisione invece di adoperare la nostra immaginazione. Questo deve essere rapidamente disimparato. Nei tempi duri, se possiedi una riserva di qualcosa, costituisci un bersaglio immobile per altre persone interessate a separarti dalla tua riserva e ad usufruirne per sé - ma se hai delle capacità che puoi condividere ed insegnare, allora tutti sono tuoi amici.
Gli stessi principi governano le strategie per soddisfare gli altri due bisogni. La sopravvivenza culturale si concentra sull'aggrapparsi all'eredità degli ultimi millenni. Si tratta di un compito difficile, perché quasi ogni parte di essa è brutalmente vulnerabile a un'epoca di declino. Quasi tutti i libri prodotti nell'ultimo secolo e mezzo sono stampati su carta ad elevata acidità, che gradualmente si disfa tornando segatura; i bibliotecari stanno già oggi lottando per preservare collezioni di libri del diciannovesimo secolo in via di disintegrazione. I CD e i DVD, come gli altri supporti elettronici, hanno una durata molto più breve, e non sarebbero comunque leggibili in un futuro a bassa tecnologia. In ogni caso, quando le persone lottano per la sopravvivenza, la letteratura, la musica, l'arte e le scienze non sono solitamente nella loro lista di priorità.
Qualunque sforzo per la sopravvivenza culturale, in altre parole, implicherà una selezione spietata. Le biblioteche, oggi in continua espansione, richiederanno una accurata vagliatura per estrarne collezioni abbastanza piccole da poter essere copiate a mano, se necessario. Forme musicali che possano essere tramandate sotto forma di tradizioni vive hanno maggiori possibilità di farcela, il che vuol dire che la musica folk ha maggiori probabilità della nona sinfonia di Beethoven. Una immensa quantità di informazione verrà inevitabilmente persa: il lavoro da compiere è assicurarsi che una selezione migliore possibile ce la faccia ad essere tramandata.
Una cosa che è stata talvolta suggerita dagli scienziati, ovvero un libro che raccolga tutto ciò che la scienza ha scoperto finora, risulta essere più problematica. La storia mostra che i trattati scientifici di un'epoca diventano i dogmi fossilizzati della seguente, e le persone che vivranno un una società deindustrializzata, avendo un libro con tutte le risposte, potrebbero molto facilmente finire per pensare che il modo per rispondere a qualunque domanda sia cercarne la risposta in un vecchio libro. Questo porterebbe alla stagnazione. Molto meglio sarebbe avere un libro di testo sul metodo scientifico, trattati su alcune scienze utili come l'ecologia e la meccanica, e sufficienti indizi e frammenti per stimolare i pensatori del futuro a iniziare investigazioni per conto proprio.
Il lavoro di costruzione di una nuova società, infine, sarà molto più semplice se il processo inizierà da subito. Durante gli ultimi due secoli, la via più rapida per prosperare è stata cavalcare l'onda del progresso, usando più energia, più risorse e più tecnologia dei concorrenti. Per i prossimi due secoli, la vià più rapida per prosperare consisterà probabilmente nel ribaltare questa regola. Coloro che accetteranno la realtà del declino e ce la faranno con meno energia, meno risorse e meno tecnologia dei concorrenti trionferanno. L'ironia sta nel fatto che adesso, prima che l'immensa base di conoscenza della società industriale inizi a disgregarsi, è il momento migliore per cercare modi di vivere che usino meno di ciò che presto non avremo più.
L'agricoltura biologica costituisce un eccellente esempio. Nell'ultimo secolo l'agricoltura biologica ha fatto enormi passi avanti, fino al punto che oggi è possibile far crescere una dieta frugale ma adeguata per una persona durante tutto l'anno su meno di 100 metri quadri di suolo, usando solo lavoro manuale e senza alcun apporto di combustibili fossili, e aumentando al contempo la fertilità a lungo termine del suolo. Questi metodi potrebbero risultare il maggior dono della nostra civiltà alle generazioni future, ammesso che riescano a sopravvivere all'era di declino che si avvicina. Oggi sono descritti dettagliatamente in dozzine di libri; se questò sarà vero anche tra cento anni dipende da cosa faremo adesso.

Fonte: Oilcrisis.com.
Traduzione di Emilio Martines.
http://www.martines.org/articolo_greer.html

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