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Ecologia diretta: problemi e prospettive di una cittadinanza per il Pianeta Stampa E-mail

Ecologia diretta: problemi e prospettive di una cittadinanza per il Pianeta

Elisabetta Mirra - Barcamp "Esperimenti democratici", Roma 4 ottobre 2008

A 60 anni dalla nascita del movimento ambientalista con la sua denuncia del disastro ecologico, a 36 anni dalla pubblicazione dei "Limiti della crescita", andiamo ancora dritti verso un disastro ecologico. Ci sono stati dei passi avanti, certo. Ma il necessario radicale cambiamento del nostro comportamento verso il pianeta non è avvenuto. Tra le molte analisi possibili, oggi ci chiediamo quale sia stato il ruolo della politica e se gli attuali assetti democratici siano in grado di far fronte al problema.

Mai nella storia l'arena democratica ha ospitato una questione più grande e definitiva, se si eccettua la minaccia di un conflitto nucleare. La dimensione del problema è globale, ma questo vale per l'intera sfera dei diritti dell'uomo. Qui però si tratta del rischio che corre il presupposto stesso della vita umana, il pianeta. Inoltre una catastrofe ecologica metterebbe a rischio qualunque assetto democratico, quindi dovrebbe essere un naturale riflesso di auto-preservazione delle forze democratiche affrontare la questione.

E invece le democrazie attuali mostrano segni allarmanti di debolezza.

Il primo problema è l'assenza di democrazia reale (lotta storica dei Radicali sulla quale non torno, dopo la circostanziata denuncia del caso Italia di ieri). Quand'anche però le nostre istituzioni funzionassero a dovere, resterebbero in piedi problemi legati proprio alla natura della sfida dell'ecologia.

Essa condanna l'antropocentrismo e presuppone una visione del mondo dove l'uomo non si pone al di sopra ma è parte del sistema vivente. Invece tutti, politici e cittadini, siamo figli di una profonda sedimentazione culturale che ci fa credere padroni del mondo. Questo genera un diffuso riflesso di intolleranza ideologica rispetto all'ecologia, relegata quasi automaticamente nella non rilevanza.

La denuncia dell'esistenza di limiti alla crescita materiale - dell'economia e della popolazione - pone un problema planetario, quindi richiede decisioni prese e soprattutto attuate a livello transnazionale da una classe dirigente rappresentativa. Senza negare i progressi compiuti a livello internazionale e sovranazionale, la dimensione prevalente delle nostre democrazie è ancora quella degli Stati, a volte solo quella locale. Siamo lontani dal poter esprimere una cittadinanza transnazionale.

La proposta di un nuovo modello di società sostenibile radicalmente diversa da quella attuale, presuppone forze politiche che sappiano lavorare con un orizzonte di lungo termine e pongano la funzione ambiente al centro dei programmi economici e sociali. Invece il sistema delle legislature orienta verso risultati di breve o medio termine per l'elettorato attuale e l'ambiente diventa una voce nel programma. Solo dai primi anni '80 compaiono i verdi europei, i movimenti diventano partiti, pagando un prezzo alto al funzionamento "democratico". Non solo perchè una questione trasversale come l'ambiente viene arrogata e rappresentata da partiti piccoli, ma anche perché la logica delle alleanze li trasforma in socialdemocratici ecologici e la istituzionalizzazione chiede un prezzo alto in termini di compromessi. Senza sottostimare il portato di organizzazioni, partiti e gruppi di pressione, e l'impegno di molti Governi, è mancato fin qui un disegno politico strategico su come attuare cambiamenti sociali ed economici profondi.

Il pensiero ecologico introduce due nuovi soggetti nella sfera della politica, che il sistema attuale non rappresenta adeguatamente: le generazioni future e i viventi non umani.

Oltre a un problema spaziale (transnazionalità) ve ne è uno temporale. I problemi denunciati dagli ecologi  hanno un carattere imperativo e urgente che richiede velocità e si scontra con la libera scelta e il lungo processo di formazione e aggregazione del consenso. Certo la scelta della sostenibilità implica una composizione di interessi e valori che solo un processo democratico può fornire. Un processo oggi troppo  lento, però.

Per risolvere i problemi ambientali occorrono unità sociale e azione collettiva, che entrano in tensione con l'individualismo che caratterizza le democrazie occidentali liberali; non vogliamo certo rinunciare a diritti e libertà individuali tanto duramente conquistati; in futuro dovremo forse ridefinirli in senso ecologico.

Per salvare il pianeta occorre, come si diceva in apertura, un cambiamento radicale e generalizzato dei comportamenti. Che non si ottiene, come provato dalla storia, attraverso la sola informazione, ma attraverso la politica. Occorre che la politica investa sulla cittadinanza ecologica, per trasformare le persone in azionisti del pianeta. Le democrazie attuali invece rappresentano passivamente una maggioranza che oppone una resistenza massiccia al cambiamento. Il fatto che le sorti del pianeta riguardano tutti non implica che tutti siano interessati. In questo l'ambientalismo è stato a lungo utopico. Sarebbe bastato l'annuncio della catastrofe imminente: come poteva l'umanità non agire in difesa del suo stesso interesse? In genere come si legge nei "Limiti della crescita", la maggior parte della gente nel mondo è preoccupata di cosa accade alla famiglia e agli amici nel breve periodo. Qualcuno estende la propria visione ai confini nazionali. In pochi hanno una prospettiva globale e pensano al futuro. Oggi non è nell'interesse di tutti una società sostenibile. C'è invece voglia di prolungare la crisi perché fonte di guadagno. E anche se è evidente che una catastrofe ecologica non farebbe differenza tra classi, non possiamo dire che il degrado ambientale oggi investa tutti allo stesso modo. Si pensi ai costi del cibo biologico, al fatto che sono le società ricche a causare la maggior parte del danno. Qualcuno parla di ambientalismo degli ultimi per segnalare che il disagio economico è sempre più inseparabile da quello ambientale. Una dei modi che la politica ha trovato per costringere a comportamenti sostenibili è la leva fiscale. ll rischio di queste misure però è che al cambiamento veloce si accompagna in genere un impegno debole. Le comunità che praticano stili di vita ecologici (green farm, cooperative di lavoratori.) sono un passo avanti rispetto al cambiamento individuale, costituendo - quando funzionano - la prova dell'esistenza di un'alternativa ed anche luoghi istituzionali di riferimento per gli individui. Il problema è che la loro efficacia è tutta legata alla loro capacità attrattiva. E la gente non si fa attrarre, per lo più le usa come surrogato della propria buona coscienza.

Il pensiero ecologico riconosce il ruolo fondamentale delle donne quali mediatrici biologiche in grado di trovare un nuovo equilibrio tra produzione e riproduzione. Le democrazie occidentali hanno ancora bisogno di discutere di pari opportunità.

Nel vuoto della (buona) politica altre forze avanzano incontrollate. Per citare Aldo Schiavone, oggi assistiamo ad un aumento vertiginoso della potenza scientifica e tecnologica. Possiamo incidere sugli "statuti primari" dell'esistenza, dal nostro corpo agli ecosistemi. Gli scienziati sono l'unica comunità internazionale realmente esistente, che estende inevitabilmente il proprio interesse ai problemi universali e morali (A. Sakharov). E la tecnica si determina da sola nel suo legame con il mercato, così grandi strutture tecno-economiche stanno già ridisegnando la forma civile e naturale del mondo. La politica dovrebbe battersi per la libertà della ricerca scientifica, ma anche sollevare gli scienziati dal progetto del futuro assumendolo su di sè, guidando la tecnica verso un equilibrio dinamico col  pianeta, fondando una nuova etica della specie.

Quanto detto significa che:
. decisioni che riguardano non solo le nostre vite e quelle dei nostri figli ma la sopravvivenza stessa della specie umana vengono o peggio non vengono prese sopra le nostre teste;
. vincere la sfida ecologica implica molto più che mettere l'ambiente nell'agenda politica: occorre riformare il sistema democratico.

Cosa possiamo fare? Poiché nessun sistema si riforma spontaneamente ma sempre in relazione ad uno stimolo esterno, occorre una forte spinta partecipativa e diretta, dal basso. Che costringa le democrazie attuali non a funzionare ma ad evolvere. Nei modi conosciuti finora e in nuovi che dovremo inventare. In "forme di aggregazione, reti sociali, modelli di mutua assistenza, di produzione e creazione basati sulla condivisione (libera e volontaria, dunque alternativa a modelli di imposizione statale), su quella empatia e cooperazione che le neuroscienze dimostrano motivare e 'soddisfare' l'essere umano più della rincorsa nella spirale bisogno-consumo." (M. Cappato)

Ma quanti siamo? Marco Pannella dice spesso che ha il sospetto che le cosiddette minoranze non siano tali, e che forse dovremmo uscire da una falsa dimensione settaria. Mentre mi ponevo questa domanda un caro amico mi presta l'ultimo libro di Paul Hawken, Blessed Unrest. Dice che l'ultimo secolo di storia umana è testimone di due fenomeni senza precedenti: danni ambientali di proporzioni globali e allo stesso tempo la nascita di un movimento planetario che si propone di curare le ferite del pianeta. Un movimento atipico, senza nome, privo di un unico leader o di una ideologia unitaria, composto di gruppi dalle dimensioni e dalle missioni più disparate, dalle associazioni di quartiere alle grandi organizzazioni, in continua trasformazione, sconosciuto ai suoi stessi componenti. Ma potenzialmente capace di generare un giorno la più profonda trasformazione sociale mai avvenuta. Hawken non si è fidato delle stime dei politici e dei media, ha costituito presso il Natural Capital Istitute un database dei gruppi che si occupano di ambiente, popoli indigeni e giustizia sociale e ne ha stimato il numero: un milione. Se ha ragione siamo tanti. Il più grande movimento nella storia umana.

Come fare buon uso di questo potere potenziale? Dove esercitare la nostra eco-cittadinanza?La rete è senz'altro una risposta. Per la prima volta nella storia gli esseri umani sono tutti potenzialmente connessi gli uni agli altri. Due appaiono le tendenze possibili: riconfigurazione attorno ad uno o più leader (è la via scelta da Al Gore); espansione: è sufficiente che ciascun soggetto, piccolo o grande, estenda le proprie relazioni perché si creino delle sovrapposizioni che saldano le falle nella rete e nasca un nuovo sistema, un organismo capace di coordinamento, di azioni unitarie e globali. Ma questo processo è forse già nella natura delle cose. Il pensiero che per salvare un pianeta che è rete vivente di relazioni l'umanità si configuri spontaneamente nello stesso modo è già motivo di meraviglia e di speranza.

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