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Geminello Alvi su economia e consumo Stampa E-mail
Da "Le seduzioni economiche di Faust" di Geminello Alvi (Adelphi, 1989) trascriviamo il paragrafo 80 del libro II, intitolato "La non economicità del consumo e le voci":
   
Poco alla volta, con un lento crescere, è divenuto normale durante il capitalismo preoccuparsi economicamente dei consumi; una preoccupazione estranea, prima che contraddittoria, all'economia sostanziale. L'economia sostanziale richiede solo, agli atti economici, di predisporre le merci necessarie all'esistenza umana; basta che l'intrapresa orienti la cooperazione del lavoro a predisporre quelle merci che le necessità del consumo distruggono. Se essa è questa predisposizione di merci, il consumo allora non la riguarda; non è un atto economico, giacché richiede non la creazione, ma la distruzione delle merci. Il capitalismo invece giudica il consumo un atto ovviamente economico; giacché deve preoccuparsi continuamente di esagerarlo per permettere l'assorbimento d'un sovrappiù sempre crescente. Diviene economico quindi occuparsi della distruzione delle merci oltre che della loro predisposizione, intensificare la sempre più esagerata distruzione di quanto si produce.
   
La soluzione economica di questo paradosso folle sarebbe la fine di ogni esagerazione del consumo, il ritorno a un'economia sostanziale che è solo creazione delle merci e non deve manipolare quindi la loro distruzione. Se il sovrappiù prodotto dall'intrapresa, dagli imprenditori e dai lavoratori, supera normalmente di gran lunga le necessità materiali degli uomini, allora l'unico atto economico efficiente, nonostante il capitalismo, è limitare la creazione delle merci. Contro questa ragionevolezza economica sta con inaudita, ma comprensibile ferocia, tutta l'Epoca moderna. Lo Spätkapitalismus la dichiara ovviamente insopportabile, giacché contraddice la sua manipolazione del consumo. L'anti-capitalismo se ne spaventa: i consumi opulenti, e l'intrusione assurda dell'economia nel consumo, gli appaiono ipocritamente come il sacrificio da accettare sempre, per proteggere l'occupazione dei lavoratori. L'idea che sia possibile e davvero economica solo una redistribuzione dell'occupazione, in un'economia diversa dal capitalismo, non li sfiora minimamente. Non mancano infine i giornalisti, con il loro incondizionato elogio dell'efficienza mercantile dei "terziari stirati", e dell'inarrestabilità salutare del progresso. Senza l'invenzione continua dei più volgari modi economici di esagerare i consumi non c'è, secondo loro, abbastanza "progresso". Solo l'iconoclastia luciferica, e per questo inflessibile, di Karl Kraus potrebbe forse esaurire la varietà multiforme di queste ipocrisie intrecciate dall'Epoca moderna per confondere con l'economia il consumo. Basterebbe che "il Criticone" si ritrovasse di nuovo per strada ad incontrare le voci del sindacalista "aperto ai problemi della produttività", del giornalista "esperto di economia", del capitalista "aperto alle esigenze sociali", e angelicamente le ripetesse.
   
(pp. 73 e 74)
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