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Luca Pardi spiega il suo "catastrofismo" Stampa E-mail
Dal gruppo di discussione Rientrodolce:
 
[...] Quello che si osserva è che in natura ci sono diversi tipi di strategie attuate dagli organismi, e in particolare dagli animali, per procurarsi le risorse. Ai due estremi si trovano la strategia delle cavallette che consumano tutto e si muovono altrove, andando incontro spesso a morie generalizzate, e quella di alcuni predatori, per esempio la lince o l'aquila che, con una densità di popolazione bassissima si garantiscono una competizione minima per le risorse. L'uomo, come altri mammiferi, ma in modo estremo, ha una strategia non rigida. Può la minore rigidità comportamentale essere considerata una misura oggettiva dell'intelligenza? Anche senza rispondere a questa domanda si può dire che la paleoantropologia, la paleoecologia, l’archeologia e la storia, mostrano che l'uomo non è sempre una cavalletta, ma a volte è in grado di stabilire dei controlli sostenibili sull'ambiente, cioè è in grado di comportarsi da lince. Gli esempi sono numerosi anche se poco studiati dagli scienziati politici, dagli economisti e dai politici che determinano le scelte della nostra società. (cfr Jared Diamond: Collasso)
Quindi va benissimo essere pessimisti, lo sono anche io. In effetti, come ha ottimamente sintetizzato recentemente Guido Ferretti, noi non siamo neppure degli ambientalisti (termine che, secondo me, sfugge ad una precisa definizione), ma semplicemente catastrofisti senza ulteriori attributi. Più pessimisti di così!
Il fatto è che non mi/ci riesce di prendere il pessimismo come una condizione per considerare l'uomo e la sua società incapace di fermarsi. Immagino che la variante di uomini conservatori come me, come le altre varianti combinazione misteriosa di genetica e ambiente, natura e cultura, sia sempre esistita ed abbia svolto il suo ruolo nel frenare, non sempre con successo, nei momenti cruciali  della storia biologica dell'uomo.
Fin qui non vedo alcuna utopia.
L'utopia può essere l'idea di fermare la crescita quantitativa e mantenere le conquiste che la crescita quantitativa ha permesso: per esempio libertà individuale e democrazia. In effetti nessuno di noi di Rientrodolce, comunque non io, siamo dei grandi fautori delle ideologie anticapitalistiche, socialiste e antiliberali, come tu ci ha disegnato nel famoso articolo. A me affascina la capacità imprenditoriale, sono convinto delle virtù dell'egoismo, sono un libertario intransigente e ho in grandissima antipatia lo statalismo. Cosa c'entra però lo statalismo e le ideologie con il riconoscimento dei limiti fisici del pianeta?
Il problema non è difendere l'ambiente. Perfino l'estinzione di molte specie animali e vegetali è da me presa non, o almeno non solo, dal lato etico della perdita di un valore assoluto, ma come esempio degli effetti dell’accelerazione entropica dell'economia. Degradazione irreversibile del sistema in cui abbiamo vissuto fino ad ora ad una velocità, e questo è la principale fonte di allarme, mai sperimentata precedentemente.
Da questo punto di vista siamo pienamente, e come potrebbe essere altrimenti, antropocentrici. Nel senso che il nostro agire è finalizzato all'uomo ed alle sue azioni.
Non siamo culturalmente antropocentrici nel senso che non crediamo che l'uomo sia il centro della Natura, e neppure che sia il punto di arrivo dell'evoluzione.
Personalmente non ho una visione evoluzionistica di tipo finalistico, l'uomo come compimento di un cammino trionfale dal mondo inanimato al Requiem di Mozart o al Borobudur. Vedo l'evoluzione, e credo di vederla correttamente secondo ciò che pensano i biologi evoluzionisti come S. J. Gould, come un processo determinato dalla selezione, dal caso, e dal lungo tempo a disposizione nonchè dalla legge termodinamica che ci dice che ogni cambiamento avviene nella direzione della degradazione senza scopo. Se si vuole essere seri è meglio lasciar perdere le presunte confutazioni di questo fatto, perchè sono inconsistenti.
L'antropocentrismo ideologico o religioso è spesso l'obbiettivo della mia polemica perchè distoglie l'attenzione dal fatto che ritengo più importante in questo momento per la nostra specie: capire che è giunto il momento di imitare quelle popolazioni che seppero fermarsi prima della catastrofe. Molte non lo fecero e pagarono con il crollo delle loro società (cfr. Jared Diamond: Collasso) non con chissa quale fine della Natura. Si noti bene non con l'estinzione, ma con la fine di quella loro particolare società. Gli esempi di sprecano. La Natura cambia e in questi cambiamenti alcuni organismi non ce la fanno altri passano l’esame. E non esiste un aspetto morale di questi cambiamenti, essi sono e basta.
L'unica differenza nel caso attuale è che il tonfo sarebbe memorabile perchè dipenderebbe dal convergere di vari fattori concomitanti (The perfect storm) 1) la penuria energetica determinata dal picco di produzione del petrolio e del gas 2) la crisi climatica 3) l'impossibilità di migrare altrove. Sarebbe la prima crisi di civiltà globale. Il disordine che essa innescherà avrà ripercussioni ovunque nel pianeta. E siccome l'unico pianeta abitabile è questo, sarebbe un disastro senza precendenti, non per la Natura, e forse nemmeno per l'uomo in quanto animale, ma per la nostra società. E questo non riguarda qualche discendente dei nipoti dei nostri nipoti, ma coloro che vivranno questo secolo, cioè, almeno in parte, noi e i nostri figli. Può darsi che tentare di frenare adesso sia vano, ci penso ogni giorno, ma non mi posso esimere da dire che si dovrebbe frenare e assumere strategie, come si dice, difensive.
    
Luca Pardi
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