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La pericolosità del nucleare e il ruolo chiave della decrescita della popolazione Stampa E-mail

Da www.luigidemarchi.it

Le religioni sessuofobiche carnefici dell'umanità

Dilagano sui giornali le cronache del recente disastro nucleare nipponico e, con esse, del disastro planetario prossimo venturo connesso da un lato al sempre più minaccioso surriscaldamento della Terra e, dall’altro, al rampante consumo d’energia del genere umano. E’ una forbice che si sta chiudendo sull’umanità e minaccia di decapitarla nei prossimi 4-5 anni.

Dopo che l’Italia e molti altri paesi avevano bloccato o drasticamente rallentato la costruzione di nuove centrali nucleari in seguito al disastro di Chernobyl ed ai suoi 260 mila morti e dopo che quella costruzione era stata rilanciata massicciamente come risposta alla incombente minaccia del peak oil e del surriscaldamento connesso a tutti i combustibili fossili, il nuovo incidente giapponese sta nuovamente mettendo alle corde i fautori del nucleare. Insomma la polemica tra nuclearisti e antinuclearisti si sta rivelando un fallimentare avantindrè, mentre la crisi energetica è ormai alle porte.

Le 435 centrali nucleari già esistenti potrebbero diventare 660 in pochi anni. Soltanto l’India e la Cina, che insieme contano circa 3 miliardi di abitanti e che “Repubblica” definisce “i due giganti asiatici affamati di energia”, hanno in cantiere una cinquantina di centrali nucleari ed è ovviamente solo l’inizio. Ma l’incidente della centrale nipponica ci ricorda che questa moltiplicazione delle centrali nucleari, imposta dalla crescente fame energetica e dalla calante disponibilità di combustibili fossili (peraltro sempre più pericolosi sotto il profilo ecologico), è una “soluzione” terribilmente rischiosa non solo per il futuro prossimo ma anche per quello lontano dell’umanità, perché da quelle centrali possono sprigionarsi contaminazioni che durano molte migliaia di anni. Se si tiene presente che la centrale nipponica era costruita con criteri antisismici, si può intuire agevolmente che le probabilità di catastrofe, già elevate con le attuali 435 centrali, diverranno altissime via via che si corre verso il migliaio di siti nucleari.

Al tempo stesso è ormai riconosciuto da tutti che l’apporto delle energie dolci (la solare e l’eolica) resterà comunque limitato al 15-20% del fabbisogno, mentre la moltiplicazione delle centrali a carbone e petrolio moltiplicherà l’inquinamento e il surriscaldamento del pianeta. Insomma, tutte le soluzioni tecniche disponibili (salvo forse il kite-gen di Massimo Ippolito, peraltro estesamente snobbato dagli ambienti cosiddetti competenti) comportano minacce sempre più gravi per la salute dell’umanità e del pianeta. In questo scenario angoscioso, l’unica variabile e semplificazione innocua del problema energetico, cioè la riduzione della popolazione e, con essa, del fabbisogno, non viene mai neppure menzionata né dalle autorità politiche, né da quelle religiose, e neppure dagli scienziati, salvo appunto Ippolito forse snobbato proprio perché convinto fautore del controllo delle nascite.
(Come ho spesso ricordato, l’Italia stessa e la maggioranza dei paesi del mondo, se riducessero le loro popolazioni ad un terzo o un quarto della consistenza attuale, coprirebbero pienamente il loro fabbisogno con energie rinnovabili e non inquinanti. E per completare questa riduzione non servirebbero né spese né guerre ma solo un passaggio, per qualche decennio, dalla famiglia prolifica alla famiglia con uno o due figli, mentre i primi vantaggi sarebbero immediatamente percepibili.)

Che tutto ciò venga ignorato o taciuto o negato è semplicemente incredibile e assurdo e ci segnala che siamo in presenza di una gigantesca e generale rimozione della questione demografica. Ma il termine stesso “rimozione”, tipico del linguaggio psicologico, c’impone di riconoscere che la crisi energetica ha appunto la sua prima e più tenace radice nella sfera della psicologia e ci conferma, ancora una volta, quanto sia pericoloso analizzare e affrontare i grandi problemi umani, come tuttora si fa, senza gli strumenti psicologici, cioè senza passare dalla politica e politologia tradizionali alla psicopolitica e alla psicopolitologia.

Come ho già altre volte ricordato, nell’odierno disastroso vicolo cieco della crisi energetica e ambientale l’umanità è stata spinta dalla convergente incapacità delle dirigenze politiche e religiose più diverse di affrontare con un minimo di buon senso i problemi dell’eccessiva prolificità, sormontando i tabù tradizionali (radicati nelle religioni ma poi estesi anche agli estremismi politici di destra e di sinistra) che circondano la sfera della sessualità e della procreazione. Da questo vicolo cieco, quindi, potremo uscire solo se riusciremo a sganciare la politica dai condizionamenti e dai servilismi che la legano al dogmatismo religioso, che non deve essere considerato il monopolista della religiosità. Si tratta insomma di allearsi con le forze responsabili presenti in ogni movimento religioso per scardinare l’arroganza dogmatica. Anche nel cristianesimo queste forze esistono: basterà ricordare l’appoggio dato alla regolazione delle nascite dalla Chiesa anglicana fin dagli anni ’30 o, negli anni ’70, da Papa Luciani: cioè, non a caso, dal pontefice che osò sfidare il maschilismo vaticano parlando di “Dio Madre” e che purtroppo morì, forse ammazzato, poche settimane dopo la sua elezione.

Insomma, certo la latitanza dei massimi e minimi leader politici (compresi quelli del petulante ecologismo oggi di moda) è semplicemente vergognosa. Ma non per questo dobbiamo arrenderci perché, come ha scritto Schiller, “la voce della verità è sommessa e insistente e finisce per imporsi anche ai sordi”.

Luigi De Marchi, 20 Luglio 2007

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